d) La città di Heine
In pochissime righe, Heine chiarisce che la poetica urbana che contraddistingueva un Montesquieu, un de Brosses e, per certi aspetti, ancora un Goethe, può diventare poetica del tutto organica al valore borghese della concorrenza.
(306)
Quanto ai pregiudizi antigotici, Heine naturalmente li ha del tutto superati. Il Duomo di Milano, per de Brosses "molto oscuro, e privo di qualunque ornamento", diventa, secondo Heine, "fresco d'estate, gaio e assolutamente piacevole"
(307): l'opposto - e forse qui gioca più la 2ratio" polemica antisettecentesca che la stessa osservazione. Analogamente, l"antico duomo di Trento" Heine lo trova "non grande, non oscuro, ma come un vecchio arzillo, cortese e attraente" (308) - e tanto più rimarchevoli questi giudizi se pensiamo che, nello stesso anno, Stendhal afferma ancora che la chiesa gotica ha comunque "qualcosa di buio e di terribile" (309).
E piacevole, per Heine, è tutta la "gotica" città di Trento:
«Trento è bizzarra, e si resta impressionati alla vista di quelle case antiche con i loro affreschi sbiaditi, con le smozzicate sacre immagini, e le loro torricciole e garitte e le finestre inferriate e i bovindi sporgenti che riposano disposti a mò di palco, su grigie colonne indebolite dall'età che hanno bisogno esse stesse di un sostegno. Un tale aspetto sarebbe ben doloroso se la natura non ristorasse di nuova vita quelle morte pietre; se una intimità e grazia non allacciasse con le dolci viti i malandati pilastri, come la gioventù la vecchiaia» (310).
C'è forse, un solo momento in cui Heine adombra per un attimo qualcosa che ricorda il Settecento. A Verona, davanti alle Arche Scaligere, ch'egli come sappiamo trova "meravigliosamente belle", lamenta tuttavia ch'esse "stiano in un angusto angolo dove devono stringersi e occupare il minor spazio possibile e dove al visitatore non rimane molto posto per osservarle con comodo"
(311). La poetica che sottende a questa osservazione, è indiscutibilmente quella settecentesca dell'isolamento scenografico delle grandi architetture. Ma questo lo "sa" anche Heine, e così, facendo subito appello all'intelletto storico, l'angusta disposizione delle Arche egli non solo la giustifica, ma la risolve addirittura in positivo:
«Si direbbe che (le Arche) volessero raffigurare la storia di quella famiglia che nella storia d'Italia ha avuto un piccolo angolo, ma un angolo che è pieno di luminosi eventi, di sentimenti ricchissimi, di magnifico orgoglio»
(312)
Ricordato, poi, l'apprezzamento di Heine per la città montuosa,
(313) per la città silenziosa, (314) e per la città che varia col variare dell'ora - tutti momenti di romanticismo (315) particolarmente marcati -, c'è da dire che questo romanticismo avrà modo di dispiegarsi in particolare quando Heine incontra Londra. Abbiamo già ricordato altrove queste pagine(316). Heine trova a Londra un'altra non città la quale gli consente di verificare la stessa uniformità architettonica ma adesso unita anche ad "una nuda serietà" e ad un moto ormai del tutto "meccanico":
«Nelle vie principali della City, la parte di Londra in cui il commercio e l'industria hanno sede, dove edifici medievali sono ancora sparsi fra i nuovi, dove le facciate delle case sono coperte fino al tetto di lunghe file di nomi e cifre, generalmente in oro e in rilievo, questa caratteristica uniformità delle case non dà molto nell'occhio...(Ma) al polo opposto di Londra, che si chiama the west end of the town, l'estremità occidentale della città, e dove abita il mondo più distinto e perciò meno affaccendato, quest'uniformità domina ancora di più; vi sono però strade molto lunghe e molto larghe, dove tutte le case sono grandi come palazzi ma, all'esterno, nulla le distingue oltre il fatto che qui, come in tutte le case di abitazione non troppo ordinarie, la finestra del primo piano è adorna di balconi con graticciate di ferro da cui è protetto un locale sotterraneo»(317)
Ma non si tratta più della sola uniformità "settecentesca" di Berlino. Se, cioè, il west end può ancora apparire in parte come qualcosa di già noto, Londra è diversa se vista nel complesso:
«Io mi attendevo grandi palazzi, e non vidi che casupole. Ma è appunto la loro uniformità e il loro numero incalcolabile, che lasciano un'impressione così grandiosa. Per effetto dell'aria umida e del vapore di carbone, queste case di mattoni prendono un colore uniforme di un oliva brumastro; sono tutte della stessa architettura, con due o tre finestre in larghezza e tre in altezza, adorne in alto di piccoli comignoli rossi che sembrano denti strappati e ancora sanguinanti, cosicchè le ampie vie tirate a piombo non sembrano che due lunghe case senza fine a forma di caserma»(318).
L'uniformità londinese di Heine, non è dunque nemmeno più quella del ricordo alfierano per esempio (Alfieri parlava, fra l'altro, della "pulizia e comodo delle case benchè piccolissime")
(319), ma è ormai, l'uniformità di tipo industriale, (320) che, se ricorda anch'essa la "caserma", presenta tuttavia qualcosa di ancora più inquietante: vedi, soprattutto, quel vapore di carbone, e la trasparente simbologia di quei comignoli rossi, che sembrano denti strappati e ancora sanguinanti.
Così, Londra consente ad Heine di confermare con particolari ancora più decisivi la sensazione cruciale già avuta nella "razionalistica" Berlino sull'emarginazione metropolitana della poesia:
«Non mandate a Londra un poeta! Questa nuda serietà delle cose, quest'uniformità colossale, questo moto meccanico, quest'aria di fastidio della stessa gioia, questa Londra esagerata, opprime la fantasia e spezza il cuore. Che se poi ci mandate un poeta tedesco, cioè un sognatore che si fermi davanti ad ogni cosa da vedere - una mendicante cenciosa o una scintillante vetrina da gioielliere - oh, allora si che gli andrà male, sarà sballottato da tutte le parti o steso a terra con un mite God damn! God damn! quei dannati spintoni! Ho subito capito che questo popolo è troppo affaccendato»(321).
In questo senso, dunque, trattasi a proposito di Heine, d'un Romanticismo totalmente dispiegato, cosicchè qualche suo spunto descrittivo della folla londinese potrebbe addirittura suonare come una palinodia di analoghe descrizioni dell'Illuminismo, quali certe, per esempio, di un Addison o di un Samule Johnson:
«Quando (...) riguardai la strada in tumulto dove una matassa variopinta di uomini, donne, bambini, cavalli, diligenze postali e, fra l'altro, un carro funebre, si pigiavano mugghiando, urlando, stridendo e cigolando, tutta Londra mi parve un ponte della Beresina, dove ognuno, in un'ansia folle, cerchi di farsi strada per carpire il suo pezzettino di vita, e l'insolente cavaliere calpesti il povero pedone, e chi cade è sempre perduto, e il miglior amico corre spietato sul cadavere dell'amico, e mille e mille che, morti di stanchezza e sanguinanti, tentano invano di aggrapparsi al parapetto, precipitano nella gelida tomba della morte»(322).
Resta, comunque, da fare una precisazione. Lo storicismo romantico, che così compiutamente si esprime in Heine, pur rifiutando qualsiasi forma di normatività nel campo dell'estetica e del gusto in generale, non per questo approda al neutralismo e all'indiscriminazione. Così, la reazione heiniana alla città industriale non implica affatto una predilezione per la città rurale o feudale: a testimoniarlo basterebbe la sarcastica pagina sulla Germania ancora arretrata, che Heine fa seguire all'ultimo passo londinese riportato. Analogamente, la ricchezza di storia non basta a salvare la stessa Monaco agli occhi dello scrittore: almeno, non al punto da fare accettare anche a lui la nazionalisticamente grottesca definizione di "Atene novella" di cui la città godeva nei tempi. Storicismo non significa non-valutazione, e gusto romantico, perciò, non significa puro arbitrio.
Le impressioni londinesi di Heine comunque, così come la stessa trasformazione industriale della capitale inglese, possono illuminarsi ancora di più se concludiamo ricordando un breve passo di Voltaire, che risale a cent'anni prima (1734), e che fa parte della confutazione d'un pensiero di Pascal, particolarmente tetro sul destino complessivo degli uomini:
«Per conto mio, quando osservo Londra o Parigi, non vedo nessuna ragione per abbandonarmi alla disperazione di cui parla Pascal: vedo una città per nulla simile ad un'isola deserta (che era lo scenario della disperazione di Pascal)
popolosa, opulenta, ben ordinata, dove gli uomini sono felici quanto lo consenta la natura umana»(323).
(307) Italia (1828-1829) etc, cit. p. 212. Escluso Ruskin, qualcosa del genere, parlando d'un edificio "goticamentr" buio, oserà dirlo soltanto HIPPOLYTE TAINE nel 1864. A proposito di San Marco, infatti, egli scrive che "si nota un fondo di letizia meridionale nella loro fantasia (la fantasia degli architetti del secolo X e XII importati a Venezia da Bisanzio), nelle tinte calde di cui essi imbevono la loro chiesa, nella completa rivestitura di mosaici scintillanti, negli intarsi dei marmi, nelle gallerie ornate di sculture, nei pulpiti, nelle balaustre, nelle ricchissime porte arabe o gotiche, chiuse ciascuna in una cornice d'apostoli" (op. cit., p. 185).
(308) JOHANN HEINRICH HEINE, Italia (1828-1829), etc., cit., p. 181.
(309) STENDHAL, Promenades dans Rome, vol. II, p. 129.
(310) Italia (1828-1829), etc., cit., p. 179-180. Per Goethe, nel 1786 (cfr. Viaggio in Italia, cit., p. 449). Trento è una città "antichissima...che in alcune vie ha case moderne di buona costruzione". Nient'altro. Del Duomo, dunque, come al solito, Goethe non fa parola.
(311) Italia (1828-1829)
(312) Ibid.
(313) "Innsbruck stessa è una stupida inabitabile città. Forse d'inverno sarà più spirituale e piacevole, quando gli alti monti, da cui è circondata, sono coperti di neve, e le valanghe minacciano, e dovunque il ghiaccio cricchia e risplende" (ibid, p. 167). Anche per Goethe ciò che è notevole di Innsbruck è la posizione: "Innsbruck è spledidamente situata in un'ampia e fertile vallata fra monti e rocce" (cfr. Viaggio in Italia, cit., p. 437).
(314) "Vi erano (a Verona) molti palazzi smozzicati che sembravano guardarmi immobili come mi volessero confidare qualche segreto, e si spaventarono dell'importanza ressa degli uomini diurni e mi pregavano di ritornare a notte" (Italia 1828-1829, cit., p. 197).
(315) Tutte le impressioni raccolte in La città di Lucca sono impressioni su questo continuo variare della città.
(316) Vedi FRANCESCO IENGO Scrittori e metropoli fra Illuminismo e Romanticismo.
(317) JOHANN HEINRICH HEINE, Frammenti inglesi, in Germania e Inghilterra ecc, cit., p. 186. Nel 1831, il nostro GIUSEPPE PECCHIO sottolinea come gli Inglesi "hanno rallegrato anche le loro case coll'imbiancarle, ed hanno ora fabbricato la parte occidentale della capitale (West End) con un'architettura più variata e più gaia" (cfr., op. cit., p. 44).
(318) JOHANN HEINRICH HEINE, Frammenti inglesi, cit., p. 186.
(319) VITTORIO ALFIERI, op. cit., p. 133. GIUSEPPE PECCHIO, nel 1831, parla di "strucchevole eguaglianza delle case londinesi, quasi tutte fabbricate nello stesso stile, come fosse una città di castori" (op. cit., p. 44).
(320) Questa uniformità tutta particolare la coglie a Manchester nel 1845 LEON FAUCHER (vedi STEVEN MARCUS, Engels, Manchester e la classe lavoratrice Torino, Einaudi, 1980, p. 60 in nota): "Manchester non si distingue nè per quegli aspetti contrastanti che caratterizzano le città del Medioevo nè per quella regolarità che è tipica delle capitali di recente formazione" - cioè di una Berlino, per esempio, o di una Torino o di una Pietroburgo.
(321) Frammenti inglesi, cit., p.184.
(322) Si leggano, in particolare, i brani su Londra di Addison, Samuel Johnson e del nostro Giuseppe Pecchio (del 1831) riportati in Scrittori e metropoli fra Illuminismo e Romanticismo FRANCESCO IENGO, cit., rispettivamente alle pp. 50, 54 e 63.
(323) VOLTAIRE, Sui pensieri di Pascal, Lettere filosofiche XXV in Scritti filosofici, cit., p.94
Theorèin - Febbraio 2008